L’8 settembre. Data scolpita nella storia del nostro paese, l’Italia. Da quel giorno il Belpaese passò dalla parte dei perdenti a quella dei vincenti senza, però, avvertire i propri soldati al fronte, che si svegliarono, il giorno seguente, nemici di coloro che gli dormivano accanto senza esserne stati informati.

Il maresciallo Badoglio e il re Vittorio Emanuele III si rifugiarono a Brindisi, compiendo una fuga precipitosa senza nemmeno presentare agli italiani, in modo chiaro,  le clausole dell’accordo con gli Alleati. I vertici militari si trovarono spaesati e senza ordini, privi di una strategia e questo costò la vita a migliaia di soldati che, in quel momento, si trovavano sparsi per tutta l’Europa. Molti di essi furono disarmati e fatti prigionieri dalle più organizzate e, soprattutto, informate truppe tedesche.

I nostri ragazzi, nella maggior parte dei casi, furono posti davanti ad una scelta: unirsi alle forze naziste e continuare a combattere insieme ai soldati tedeschi o dire “No”, gettare le armi ed essere considerati impropriamente “Internati militari” (IMI, Internati Militari Italiani) e non “Prigionieri di guerra”, poiché Hitler non riconobbe lo stato di “belligerante” al Regio Esercito Italiano.

Le conseguenze di questa qualifica furono dannose per i nostri soldati: la Croce Rossa Internazionale non aveva potere di intervento e la Croce Rossa della Repubblica Sociale Italiana non aveva la possibilità di accedere ai campi nei quali erano rinchiusi i prigionieri. Di fatto, i soldati italiani erano stati abbandonati a loro stessi.

Circa centomila italiani accettarono di unirsi alle forze naziste, come soldati o come forza lavoro, mentre la stragrande maggioranza dei nostri soldati rispose negativamente alla proposta del Fuhrer e decise di abbandonare le armi. Questi ultimi furono, quasi nella loro totalità, rinchiusi in campi di lavoro forzato nei quali, ovviamente, le condizioni di vita erano disumane.

Queste decisioni, tuttavia, non possono essere semplificate alla semplice scelta di resistenza o adesione al nazifascismo, le motivazioni delle singole scelte furono molto varie e dipesero fortemente dalle condizioni in cui versavano le truppe.

Coloro che subirono la sorte peggiore furono gli ufficiali, essi, infatti, furono quelli a ricevere più pressioni per unirsi alle forza degli ex-alleati. Circa il 30% di loro dovette cedere, mentre altri furono, per mesi, costretti ai lavori più duri e alle umiliazioni più cocenti e spietate.

Nel luglio del 1944, a seguito di un accordo tra Hitler e Mussolini, tutti i soldati italiani prigionieri furono trasformati in lavoratori civili. Il provvedimento, però, fu mal digerito dai protagonisti e quasi il 70% di essi si rifiutò di cambiare la propria condizione anche per paura di essere coinvolti direttamente in alcuni teatri di guerra. Per questo motivo il provvedimento fu imposto con la forza alla quasi interezza dei prigionieri a parte poche eccezioni.

Questa condizione fu quella che accompagnò i prigionieri fino alla liberazione avvenuta nel 1945 da parte delle truppe Alleate. Da quel momento inizia una lenta ed estenuante fase di rientro, compiuta attraverso le dissestate linee ferroviarie o, addirittura, condotta a piedi, camminando per diverse settimane verso un Paese che, probabilmente, si sarebbe rivelato molto diverso da quello da cui erano partiti.

La storia degli IMI fu, per molti anni, taciuta. Solo in seguito, le reali condizioni nelle quali le truppe italiane versarono vennero portate sotto i riflettori grazie a testimonianze e ricordi di coloro che le avevano vissute.